Il problema del centro antico

L’approccio al centro antico come a un’opera d’arte è la premessa che consente di superare la diatriba sul che fare e, grazie alla scelta a questo punto indispensabile e generalizzata dell’intervento di restauro urbanistico e architettonico, puntare subito al come fare – quindi ai problemi propri del progetto di architettura. Poiché di un intervento di restauro è indiscutibile la finalità – ripristinare l’unità figurativa dell’opera d’arte --, la condizione di lavoro sembra rendere subordinato e limitato l’intervento del progetto moderno, una condizione che si rivela invece stimolante e interessante per il progetto che non insegue l’autorappresentazione e si esprime privilegiando il procedimento critico alla ricerca di quelle relazioni più complesse che ne sostanziano e motivano la radicalità.
Una così drastica semplificazione del problema ha innanzitutto la conseguenza metodologica di assegnare assoluta preminenza agli aspetti individuali, singoli, eccezionali, unici.  Se l’ispirazione deve evidentemente molto all’insegnamento di Giuseppe Samonà (“L’unico e solo modo possibile di progettare nel centro storico è quello che consegue alla scoperta di tutte le relazioni interne alla sua configurazione fisica”), il metodo coerentemente evidenzia la singolarità di ogni episodio edilizio contro qualsiasi pseudo-scientifica classificazione. L’astrazione in regole generali tipo-morfologiche, più o meno finalizzate alla progettazione, inevitabilmente finisce per sottovalutare il carattere figurativo del contesto. Le posizioni di Saverio Muratori e della sua scuola hanno avuto giustamente ricadute vaste e penetrazione profonda, ma una “scheda storico-tipologica di rilevazione” è utile certamente per i tessuti gotici, i tessuti pianificati in generale, ma può dire niente della realtà stratificata di un centro antico meridionale.
Il problema dei centri storici è stato sempre affrontato come il problema del loro degrado. Il degrado invece non può mai essere utilizzato come un criterio di giudizio perché, applicato per unità immobiliare, trascura e ignora l’unicità della parte; maschera in realtà un giudizio negativo sui tipi edilizi antichi e un’aspirazione al nuovo – alla sostituzione edilizia. Vere e proprie aree di degrado sono solo quelle che hanno perso identità e ruolo urbano: la scelta tra antico e nuovo deve quindi rendere esplicito il giudizio complessivo sulla parte e il dilemma: città antiche - edilizia nuova o città antiche - edilizia antica va rinviato ai singoli contesti. Per il primo caso (con scarsi riscontri da noi, a parte le dispute, sono andato a verificarlo in Olanda, dove l’azione di trasformazione dei centri storici è andata avanti dalla fine degli anni ’70 senza troppe esitazioni) (1), il metodo è noto: sì alla permanenza dell’impianto urbanistico e no, quindi, alla permanenza dell’unità particellare; sì al nuovo senza trucchi e mimetismi, per migliorare l’offerta dello standard abitativo. I risultati (pensando al caso di Amsterdam): il nuovo si presenta con un effetto di propagazione che la struttura urbanistica non riesce a assorbire (viceversa, le aspirazioni di trasformazione risultano immiserite o miniaturizzate). Nell’altro caso, il ripristino tipologico (vedi l’esperienza bolognese) postula innanzitutto la continuità della scala edilizia, nel senso che un tessuto gotico può essere perfettamente riproducibile proprio per la continuità dello standard edilizio antico con quello moderno. La legittimità dell’esperienza bolognese era sostenuta dalla oggettività della restituzione catastale, in realtà fu un intervento urbanistico legittimo perché sostenuto da un giudizio coerente sulla omogeneità e continuità della parte, poi fu una scelta architettonica efficace, ad esempio, nel restituire la scansione spazio–temporale dell’edilizia antica. In entrambi i casi il vero problema che costituisce un metro di giudizio, resta in ogni caso la corrispondenza della soluzione architettonica alla dimensione già fissata dalla scala urbanistica antica.
Le tecniche da adottare vanno ogni volta riferite al giudizio sulle caratteristiche dell’impianto. Dalla proposta per il recupero dei Quartieri Bassi a quella per la risistemazione del centro storico di Bari, dai “riammagliamenti” previsti per Aversa agli “inserti” calati nel centro antico di Napoli, sono tutte proposte molto differenziate che ripropongo per un approfondimento. La scelta del recupero dell’impianto gotico nel settore del mercato a Napoli è a prima vista sorprendente (2): il degrado strutturale subito non sembrerebbe giustificare la conservazione neppure limitatamente alla tipologia, tanto rilevante è la quota edilizia andata perduta tra distruzioni belliche e sostituzioni. Ma la scelta è stata indipendente dal giudizio sulla condizione edilizia ed è passata per il giudizio sulla attualità dell’impianto. Infatti “il problema dell’alternativa tipologica può essere risolto coerentemente solo dopo aver accertato l’attualità o l’obsolescenza della struttura nel nuovo organismo urbano. Allora, in quel caso, tramontata l’ipotesi del Quartiere dei Commerci e quando è avviato l’allontanamento delle attività che sovraccaricavano il settore, l’impianto antico si riscopre come l’unico capace di garantire un riuso equilibrato del quartiere e insieme confermare quella compattezza ineliminabile nella concatenazione della struttura morfologica della città storica. A questo punto il riconoscimento dell’impianto comporterà la conferma del tessuto strutturato sull’identità della casa col lotto; la conservazione non potrà attuarsi se non completando il tessuto superstite; il completamento non potrà essere che la riproduzione del tipo” (3).
Ma una proposta più recente, quella che ricostruisce un intero settore del centro storico di Aversa, affronta allo scoperto il rischio della riprogettazione della città antica (4). “Progettare la morfologia” (attenzione, al Paese dei Barocchi mancò sempre l’intelaiatura urbana) significa conoscere la struttura del modello urbano a tal punto da simularne i comportamenti come in un laboratorio, immettendo volta a volta gli impulsi (i vincoli) necessari al progetto. Si tratta chiaramente di un procedimento intuitivo, difficile da descrivere come un processo di pensiero formale, fondato su un senso della forma urbana che naturalmente ha bisogno ogni volta della verifica del progetto. Non è una progettazione storicistica perché ha il realismo della simulazione applicata a una struttura continua (il tessuto) che produce effettivamente la sequenza del microrganismo urbano; non è neanche l’esaltazione tipologica dei “riammagliamenti” muratoriani - ma anche di tutti gli esercizi della “scuola tipologica” più recente -, dove l’accentuazione della serialità finiva per dilatare quel carattere di simultaneità proprio del nuovo, estraneo quindi all’esperienza spazio–temporale della città storica.
L’impossibilità invece di ricostruire i tessuti è riconosciuta e indagata nello studio per la risistemazione del settore del centro storico di Bari investito a suo tempo dal Piano Petrucci (5), un intervento considerato esemplare per una duttile applicazione della tecnica del diradamento (in realtà un tentativo di riforma spaziale destinato al fallimento: per la continuità che l’impianto antico incessantemente reclama; per le lacune e le lacerazioni che i tessuti denunciano quando si ritrovano scoperti sui nuovi invasi). Davanti alla radicale distruzione dei tessuti e dei percorsi, nell’intento di annullare la misura urbanistica dell’intervento e ricompattare la parte, assorbendo la sequenza dei diradamenti che dilagano intorno al Duomo, la tecnica suggerita appare più complessa: una sequenza intervallata e spezzata di quinte, come controforma di quelle superstiti, in modo da comprendere le trasformazioni ma ricompattare la trama degli alvei. Si delinea un progetto che precisa esclusivamente il sistema degli spazi e il ruolo architettonico delle quinte, mentre lascia indeterminato il contenuto degli inserti, supposti come vuoti in cui alloggiare volta a volta il congegno che ne consente l’attivazione.
Ma il ripristino tipologico risulta irrealizzabile soprattutto quando registriamo la rottura tra lo standard antico e quello moderno: è drammaticamente il caso del centro antico di Napoli, dove l’impossibilità di riprodurre i tipi edilizi storici, caratterizzati da una scala architettonica non più riproponibile se non a prezzo di una ridicola miniaturizzazione, rinvia ogni volta alle possibilità offerte dalla condizione specifica del lotto per sviluppare il carattere figurativo del contesto (6). Sembra a questo punto riemergere il rischio di un ritorno all’ambiente e all’ambientalismo. In realtà la possibilità di una soluzione impressionista o di atmosfera risulta negata dal carattere intrinseco dei luoghi; il forte sentimento di chiusura della parte respinge ogni aspirazione all’«intimità urbana»; l’affermazione del diritto al Moderno recede di fronte all’opposizione esercitata dall’Antico. Neanche aiuta il ricorso alla scaltrezza dell’intervento “interstiziale” o la perizia del “frammento”, inadatti in un contesto caratterizzato dalla chiarezza dell’impianto e della relazione tipo–morfologica. Le soluzioni riuscite saranno dunque quelle che combineranno invenzione tipologica e condizionamento morfologico, sfidando apertamente i limiti imposti e liberando quella complessità di cui in questi casi il progetto ha disperato bisogno (7).

Il progetto nella città antica è sostenuto da una certezza: l’analisi della struttura consente di riconoscere la natura della parte e prevederne la trasformazione, evitando l’arbitrarietà del segno isolato. Punto fermo è il riconoscimento dell’opposizione interno–esterno, fondamentale per orientarsi e riconoscere la struttura. Se sul primo versante continuità e compattezza sono dati ineliminabili, all’opposto, sull’altro, isolamento e distanziamento sono la regola. L’interesse dei temi centrati sulla presenza del monumento si spiega proprio per il doppio ruolo che svolge, colto ogni volta sul limite della relazione. A Cefalù dall’attenta lettura dell’architettura del Duomo si può dedurre la traccia della trasformazione coerente – volta a assicurare il suo isolamento dalla struttura urbana (8); a Molfetta, da quando il Duomo ha perso il guscio murario che lo avvolgeva, si pone il problema di definire un ambito architettonico mai previsto - come è giusto è il monumento che svela una tale forza da imporre la soluzione (9); a Bari, dove il monumento è l’intera città antica fino al promontorio, eliminando l’infrastruttura viaria che la circoscrive, ritorna in forma compiuta l’immagine della città vecchia isolata sul mare (10). Solo per Santa Chiara a Napoli il problema, dopo la manomissione dell’antico recinto, appare senza soluzione (vi sono ritornato tre volte, a partire dalla riproposta del progetto di Marcello Canino), a dimostrazione che il rapporto monumento contesto nella città storica aveva acquisito una naturalità intrasformabile (11).
Alterazioni, trasformazioni, recinti, inserti, lacune elencano le tecniche di intervento all’interno della struttura, dedotte dal processo di costruzione della città. A Napoli, dove l’eccezionalità degli impianti monumentali è celata all’interno di recinti che garantiscono la continuità dell’assetto morfologico generale, sistematicamente ogni nuova eccezione può essere riassorbita spostando il recinto e sopprimendo il tracciato stradale. E’ una tecnica coerente alla natura dell’impianto, dunque, e che anzi la esalta, ma anche l’unica che consentirà di riassorbire i vuoti delle nuove aree archeologiche.
Se l’urbanistica dell’ottocento aveva cercato con accanimento la continuità tra la nuova scala urbana e la città antica – una continuità impossibile -, oggi, rispetto a un centro antico circoscritto e finito, ad ogni settore urbano va riconosciuta una autonomia figurativa da circoscrivere e ridefinire. Nella giustapposizione dei sistemi si sono venute evidentemente a creare delle aree di risulta non rapportabili qualitativamente con alcuna delle parti a confronto. Queste aree sono assimilabili a superfetazioni, nel senso che non riescono a avere la dimensione minima del sistema di appartenenza: sono quindi potenzialmente i vuoti in cui non si deve più ricostruire, vuoti che acquistano configurazione spaziale proprio dal confronto dei diversi sistemi esplicitati come entità figurative distinte. La successione degli episodi spaziali dove i sistemi si separano e si confrontano è definita “area di soglia”- è il tema intuito “dietro il risanamento” a Napoli, tra il paravento del Rettifilo e il bordo del centro antico (12).
Fuori dalla continuità del settore antico la città è intesa dunque come un sistema aperto dove le parti, tutte riconoscibili per natura e forma, convergono, si confrontano, si separano. Il progetto urbano diventa l’intuizione e il tracciamento di quel limite affinché la soluzione di continuità tra le parti si manifesti con l’evidenza dell’innovazione spaziale – quindi gli elementi della città esistente trovano una conferma moderna, riscoperta e proiettata in uno scenario inedito. A Bari lo spazio di soglia, l’antidoto vero alla monotonia, è colto in coincidenza col quartiere della Madonnella (tema ignorato dal concorso del 1990): in prossimità della rotonda che raccorda i due bracci del lungomare, dove i due sistemi urbani si affiancano nell’inerzia delle rispettive posizioni, l’area del vecchio quartiere Icp ritorna in primo piano come occasione per costruire la nuova relazione tra le parti – interruzione distanziamento isolamento dei sistemi architettonici sul mare (13). A Venezia, sulla riva di S. Basilio, la proposta (14) ha individuato una serie di interventi puntuali intesi a costruire, in forma esplicita o solamente implicita, la linea di demarcazione tra i due sistemi – la città antica e la città industriale – che si fronteggiano sul confine dell’acqua (15).

(1) Tra l’89 e il 91 ho seguito le vicende dell’architettura in Olanda, particolarmente a Amsterdam, con una serie di articoli pubblicati su L’Industria delle Costruzioni.
(2) Cfr. “Dietro il Risanamento”. I quartieri bassi di Napoli”, ed. LAN, Napoli 1984.
(3) Cfr. op. cit., pp. 13-14.
(4) Cfr. “Progettare la morfologia, Aversa”, ed. CUEN, Napoli 1999.
(5) Crf. “Atlante critico di Morfologia Urbana. Bari, la linea del mare”, ed. Safra, Bari 1994, pp.32-34; “Bari la linea del mare. Progetti”, ed. Safra, Bari 1996,       pp.21-30.
(6) Cfr. “Tre progetti nel corpo di Napoli”, ed. Clean, Napoli 1993, pp. 9-11.
(7) Alla fine si ritorna alla posizione di Rogers (Verifica culturale dell’azione urbanistica, 1957) e al rischio del progetto affidato alla perizia dell’architetto.
(8) Cfr. relazione al XII seminario di Gibilmanna 1984, pubblicata in “Materiali d’architettura”, a cura di Uberto Siola, ed. E.DI.SU. Napoli 1990, pp. 257-264.
(9) Cfr. Relazione al progetto per il Concorso di idee per il recupero funzionale e architettonico del fronte mare del centro antico di Molfetta, 1995.
(10) Cfr. opp. cit., pp. 28-30 e pp. 6-13.
(11) Cfr. “Santa Chiara, la piazza il recinto il contesto”, mostra del progetto, Refettorio di S. Chiara, Napoli 1984; “Il Corpo di Napoli. Restauro urbanistico del        centro antico”, ed. Clean, Napoli, 1a edizione 1986 e 2a edizione 1992.
(12) Cfr. “Dietro il Risanamento. Il centro antico di Napoli”, ed. Clean, Napoli 1983.
(13) Cfr. opp. cit., pp. 39-41 e pp. 6-13.
(14) Cfr. Relazione al progetto per il Concorso di progettazione per una nuova sede I.U.A.V. nell’area dei Magazzini Frigoriferi a San Basilio, 1988.
(15) Cfr. Salvatore Polito, “Progetti e ricerche”, in ArQ 17, Electa Napoli 2000.

 

Il Centro Antico di Napoli

 

 

 


Promemoria sul Centro Antico di Napoli

La struttura
Com’è noto, il Centro Antico di Napoli è cresciuto sull’impianto della città greco-romano, ma proprio la permanenza dell’impianto ippodameo ne ha reso di fatto impossibile l’evoluzione, o meglio ha consentito solo quelli trasformazioni che ne consolidarono la struttura. Riassorbendo gli spazi pubblici della città antica, la maglia è stata per esteso e senza intervalli edificata. A questo ha contribuito, oltre all’incremento edilizio, la spinta a “fare insula”, fenomeno altrettanto noto dovuto alla diffusione e moltiplicazione delle aree conventuali. Una anomalia che ha concentrato l’organizzazione monumentale all’interno dei recinti sottraendola ai percorsi urbani, ha privato l’intero settore di spazi pubblici, ha sistematicamente e definitivamente compattato l’impianto. Come un processo di agglutinamento, ogni scansione, ogni gerarchia appare riassorbita dalla continuità della massa edificata.

L’immagine
La compattezza  è diventata quindi l’immagine prevalente colta a conclusione della vicenda urbanistica. Il risultato è un peso edilizio abnorme, caricato sull’impianto ripartito tra i tre decumani e gli angusti cardi. Su quei varchi stradali stabiliti dalla città antica già alla fine del cinquecento gli edifici raggiungono e superano l’altezza di venti metri. L’alta densità resta comunque – ed è questo che conta confermare - un dato fisico immodificabile del corpo della città.

La tipologia edilizia
La casa napoletana si può ancora far risalire allo schema fondativo organizzato intorno al vuoto centrale del cortile. Il lotto si organizza stabilmente sulla sequenza: vico-androne-cortile-scala; all’interno lo sviluppo verticale, dal cortile al lastrico, è reso continuo dalla scala aperta. L’alloggio è costituito da una successione di vani, veri e propri moduli spaziali, disposti intorno al cortile, solo in seguito disimpegnati con l’aggiunta del ballatoio.

L’insula
Ma a fare massa, a accentuare la densità è la stessa organizzazione dell’insula. Queste (quella base misura circa 180 x 36 metri) sono costituite da impianti autonomi, ciascuno organizzato all’interno del proprio lotto, senza relazioni di affaccio con quelli confinanti. Muro contro muro, la struttura dell’insula disegna un corpo a corpo che ne esalta la compattezza.

La stratificazione
L’ultima e definitiva conferma di questa compattezza è nella stratificazione verticale degli impianti. Quella continuità, dal sottosuolo - il piano di posa della città greco-romana - al lastrico, è la conferma della inamovibilità e intrasformabilità della struttura.

La scala edilizia
In un assetto urbanistico così rigidamente definito l’alta densità ritrovava tuttavia un suo equilibrio nello sviluppo del tipo edilizio. Il primo piano abitato era impostato a un’altezza di circa sei metri dal piano stradale, quindi i piani proseguivano con un’altezza dai quattro ai cinque metri, dimensioni che giustificano la dilatazione spaziale della scala aperta, come pure il proporzionamento degli elementi architettonici. (Ma sono proprio questi dati che rendono evidente la rottura tra lo standard edilizio antico e quello moderno).

La discontinuità
Il tema della discontinuità può essere naturalmente reso più evidente – e tattile e drammatico – dall’analisi del dettaglio costruttivo. La casa napoletana, costruita in tufo, ha spessori murari di novanta centimetri che si colgono interamente nell’imbotte squadrato dei vani delle finestre.

L’esperienza percettiva
Lungo i varchi stradali gli edifici non vengono mai ordinati in prospettiva, fanno massa: si scoprono nella loro organizzazione architettonica solo colti dalla soglia dell’androne, nella prospettiva interna del cortile esaltata dalla scala aperta.

La scala architettonica
Nella percezione lungo il vicolo gli elementi architettonici vengono colti separatamente e  singolarmente e non possono mai essere riferiti alla facciata dell’edificio. E’ il caso dei portali che incorniciano gli androni, pezzi unici che costituiscono una sequenza di oggetti architettonici colti in successione – non a caso gli episodi più caricati e forti. Ma è anche il caso delle finestre e della modanatura che le isola. La finestra, mai inquadrata nella facciata o nell’infilata prospettica, la si può scoprire come dettaglio ravvicinato e ingigantito solo guardando dalla finestra di fronte – ecco una percezione di nuovo tattile e drammatica. Il singolo elemento, privato del rapporto che gli conferirebbe l’intera facciata, viene scoperto in una dimensione che fatalmente tende al fuori scala, come una sproporzione tra la scala dell’architettura e l’osservatore.

La rapsodia
La trincea del vicolo non restituisce dunque il corridoio prospettico. La scoperta del dettaglio ingigantito come  la scoperta episodica, per scene isolate e intervallate raggruppate ogni volta intorno ai cortili, diventano la maniera unica di percepire l’ambiente. Una successione di interni o di particolari, una rapsodia di immagini, ora scene teatrali ordinate sulla sequenza androne-cortile-scala, ora frammenti architettonici che proviamo a ordinare mentalmente.

La scena teatrale
Quella della scena teatrale è una metafora resa opportuna anche dal modo in cui si distribuisce la luce. Dal nero del varco stradale la luce ogni volta si coglie affacciandosi sulla scena del cortile.

Il carattere dominante
In conclusione questa massa edificata è sempre avvertita come eccezione, singolarità, anomalia, ma anche esclusione, restrizione, opposizione. Questo carattere è un dato che il progetto dovrebbe sempre cogliere, precisare e esaltare. (1)

(1) In Salvatore Polito, Tre progetti nel Corpo di Napoli, ed. Clean, Napoli 1993

Restauro urbanistico del centro antico di Napoli, 1986-93

 

 

 

La permanenza dell’impianto ippodameo ha reso di fatto impossibile l’evoluzione del Centro Antico, o meglio ha consentito solo quelle trasformazioni che ne consolidarono la struttura. Rispetto alla natura della struttura risultano alterazioni tutti gli interventi realizzati dall’ottocento in poi. Il progetto di restauro deve affrontarne le contraddizioni per restituire compiutezza al Centro Antico come parte finita della città.
La modificazione dei bordi è la prima iniziativa urbanistica adottata nell’ottocento. Le nuove palazzate di via Rosaroll, via Foria, via Pessina, inglobando le mura, stabilirono la continuità urbana sufficiente a assorbire l’interruzione degli antichi fossati. Sono interventi che non alterano il confine e ne investono soltanto l’aspetto fisico, per cui il progetto deve verificare la coerenza dell’assetto edilizio rispetto alla natura del bordo (come a Piazza Cavour dove l’edificio comunale ha occluso l’affaccio del largo degli Incurabili). Una grave alterazione che non ha tuttavia coinvolto il Centro Antico è quella del Rione Carità. La radicale trasformazione operata tra le due guerre ha interrotto infatti la continuità, d’epoca vicereale, con l’espansione di via Toledo, ma non ha alterato il confine, riportato sull’antico argine di via Monteoliveto.
Il taglio del Rettifilo ha reciso la continuità con i Quartieri Bassi e ha lasciato scoperto l’impianto antico, creando un problema di consolidamento ancora una volta limitato al bordo. La logica del rettilineo non poteva che ignorare la specificità degli assetti morfologici interni: i nuovi blocchi stabiliscono una continuità tesa a riassorbire nella nuova struttura la specificità dello stesso Centro Antico come parte urbana. La soluzione di continuità è invece la condizione necessaria affinché il Rettifilo stabilisca il perimetro del Centro Antico e il Centro Antico trovi il suo confine. Per marcare la soluzione di continuità il progetto deve evidenziare il carattere delle strutture investite e isolarne la sequenza lungo il bordo. Dove il confine è già evidente si tratterà di completare i due sistemi e esaltarne il confronto: sarà il caso del quartiere della Maddalena contrapposto al tridente di Piazza Garibaldi, o delle murate dei complessi conventuali contrapposte ai nuovi blocchi. Dove i nuovi blocchi stabiliscono una continuità con le cortine antiche - via P. Colletta, il Cerriglio -, l’incompatibilità tra le due scale edilizie imporrà il distanziamento, in modo da esaltare il confronto con la visione dei monumenti. Dove l’intervento ha assunto l’ampiezza di una nuova maglia - all’incrocio tra il Rettifilo e via Duomo - bisognerà sottolineare la funzione di cerniera dei settori intermedi. La successione degli episodi spaziali, dove Centro Antico e Rettifilo si separano e si confrontano, si può definire “area di soglia”. Dalla soglia non avremo un’unica visione del Centro Antico, ma una sequenza di visioni parziali che tuttavia ne restituiscono la struttura.

Quando nel secolo scorso il Centro Antico viene coinvolto nelle proposte di attraversamento è fatale registrare la sua alterazione. Con l’apertura di via Duomo la relazione tra i due settori, in cui risultò diviso, fu definitivamente segnata da una pausa agli incroci dei tre decumani. Se la prosecuzione di via Duomo ha completato l’impianto della città ottocentesca, tutte le altre iniziative risultarono episodiche e inconcludenti dal punto di vista della trasformazione urbanistica e, come tali, il progetto di restauro deve provvedere a riassorbirle. Irreversibili, infatti, risultano solo quelle iniziative che sovrappongono organicamente un nuovo sistema urbano a quello antico. Dopo via Duomo gli interventi che si sono spinti nel Centro Antico sono quelli realizzati dal Risanamento: via Mezzocannone, via Grande Archivio, via Forcella, via P. Colletta. I primi due realizzano il collegamento tra il Rettifilo e il primo decumano ma con efficacia opposta. Via Mezzocannone ha sempre rappresentato il valico che conduceva all’ingresso situato in piazza S. Domenico, per cui il suo ampliamento ne consolida la funzione - in più scandisce adeguatamente la sequenza dei complessi trasformati per l’insediamento dell’Università. Al contrario via Grande Archivio, pur tagliando il chiostro del Divino Amore, non trova sul decumano un punto di innesto significativo. In realtà la strada, insieme a via B. Capasso, doveva completare la maglia interna della nuova lottizzazione impostata da via Duomo, ma l’incompletezza dell’intervento di sostituzione ha tolto ogni efficacia alle due strade. Via Forcella e via P. Colletta sono due iniziative previste in tempi diversi, tuttavia sommano il loro effetto sull’intero settore tra i Tribunali e il Rettifilo. Via Forcella (il suo ampliamento interrompe il decumano inferiore) doveva proseguire in rettilineo fino alla Maddalena, e via P. Colletta (il suo sviluppo recide tutti i tessuti di raccordo) doveva ribaltare il funzionamento dell’intero settore verso il Palazzo dei Tribunali. Ma l’interruzione della prima e la frammentazione della seconda non riuscirono a annullare l’efficacia dell’antico tracciato verso Porta Nolana. In conclusione se via Mezzocannone è una trasformazione riuscita e opportuna, gli altri interventi, almeno nella loro dimensione urbanistica, sono alterazioni che vanno riassorbite.
Il programma di risanamento prevedeva anche l’ampliamento delle sezioni dei cardini, tecnica che produceva inevitabilmente l’addensamento dell’edilizia superstite. Fortunatamente l’iniziativa è limitata a due traverse, via S. Arcangelo a Baiano e via Delle Zite, mentre un solo taglio trasversale, via S. Trinchese, allude al sistema di completamento della maglia. All’inefficacia urbanistica si aggiunge l’impossibilità di un effettivo risanamento, per cui s’impone il riassorbimento di questo gruppo di alterazioni fino alla scala edilizia. Anche se il giudizio diventa più severo per le ricostruzioni di vico Zuroli e via Maffei - dalle modeste cortine ottocentesche passiamo alla peggiore edilizia laurina -, tuttavia la regola dell’intervento è assimilabile ai casi precedenti e resta analogo il criterio del progetto.

La distruzione dei conventi della Sapienza e della Croce di Lucca, per la costruzione dei padiglioni del Policlinico, ha rappresentato la lacerazione più clamorosa all’interno del Centro Antico e pone un problema di progetto da affrontare separatamente. Non solo l’adozione del tipo edilizio isolato ha portato il vuoto direttamente sul decumano, ma l’intero insediamento non è mai stato accompagnato da una trasformazione urbanistica coerente. Via del Sole infatti, pur ampliata, resta un’alterazione circoscritta alla struttura dell’impianto ippodameo, e certamente la realizzazione della rampa di collegamento con piazza Cavour non le conferisce misura urbana. Oggi l’area del Policlinico è un’area d’attesa, il suo ruolo può essere ridefinito solo quando se ne stabilisca il sistema di appartenenza. Per come è stato realizzato l’insediamento - la contiguità con le insule, la sopravvivenza del bordo conventuale all’esterno, la funzione di collegamento attribuita ai decumani -, l’area apparterrebbe al sistema antico e quindi non dovrebbe che confermarne la figura compatta; possibilità diverse, e a questo punto più opportune, si potrebbero creare solo se, approfittando della sua posizione di bordo, si riuscisse a ribaltarne l’appartenenza al sistema esterno, quindi su via Costantinopoli, accorgimento che consentirebbe maggiori possibilità nel decidere la destinazione. (Una lacerazione più circoscritta, ma analoga negli effetti, è l’ampliamento di via Armani. In questo caso la posizione così interna alla struttura dell’impianto antico ne impone il riassorbimento).

Per riassorbire le alterazioni all’interno della struttura è possibile adottare tecniche di modificazione dedotte dal processo di costruzione della città antica. L’impianto ippodameo, infatti, ha subito nel tempo modificazioni realizzate col procedimento tipico dell’accorpamento delle insule e soppressione dei tracciati. In questo modo l’eccezionalità degli impianti monumentali veniva riassorbita all’interno di recinti che assicuravano la continuità dell’assetto morfologico generale. Allora, nell’intorno di un complesso monumentale, il vuoto conseguente alla soppressione di una alterazione - quando questa si estende per una intera cortina - può essere riassorbito spostando il recinto e sopprimendo il tracciato stradale. E’ il caso, per esempio, di via Maffei, dove la ricostruzione del dopoguerra ha alterato l’intera cortina di fronte al recinto di S. Gregorio Armeno; ma è anche il caso di vico Carminiello ai Mannesi, dove l’area archeologica, scoperta dai bombardamenti, costituisce un vuoto altrettanto incongruo. Quando non è possibile utilizzare la tecnica del recinto, annullata la misura urbanistica dell’intervento e riportata in primo piano la struttura urbana antica, sarà possibile circoscrivere le alterazioni come “inserti” compatibili con la struttura principale. Esclusa la tecnica del ripristino, è indispensabile un intervento di nuova edificazione. Il nuovo lotto, pur caratterizzato con autonomia, tenderà a riconnettere la trama dei percorsi e a ristabilire la relazione fisica degli spazi antichi. Naturalmente l’ampiezza dell’intervento deve avere la misura minima necessaria a ricreare in modo allusivo quelle caratteristiche. Se infatti a vico delle Zite, per esempio, è necessario un ampio intervento per ristabilire la misura dell’antico cardine, basterà invece appena un cavalcavia su via Colletta per alludere alla continuità tra il tessuto di Forcella e di via Sopramuro.

Mentre l’iniziativa urbanistica si è fermata col Risanamento - che peraltro aveva realizzato solo parzialmente i suoi programmi - è andato avanti l’insediamento di nuove funzioni. E’ una vicenda che ha sistematicamente coinvolto i complessi monumentali, frazionando e alterando le strutture architettoniche per adattarle alle nuove esigenze. La riconversione a uso ospedaliero ha investito un intero settore del Centro Antico ed è opinione comune la sua incompatibilità con le strutture monumentali. Ma anche nel caso di funzioni più proprie bisogna lamentare il frazionamento del complesso, quindi la perdita dei percorsi e dell’identità spaziale. Solo il giudizio sul carattere del monumento consente di stabilire la compatibilità con la trasformazione subita e l’eventuale riconversione. L’isolamento dei monumenti è stato qualche volta considerato come la tecnica adatta alla loro valorizzazione. Che l’isolamento sia una evidente alterazione del carattere strutturale dei monumenti napoletani lo dimostra la demolizione del recinto di S. Chiara - problema urbanistico non ancora risolto -, ma è pur vero che resta l’esigenza di consentirne una moderna conoscenza. Ricompattati infatti i recinti, quando siano stati alterati, una visione nuova dell’organizzazione monumentale sarà scoperta creando percorsi di osservazione e visita che attraversano i recinti senza modificarli. Questi varchi si otterranno proprio ripristinando i percorsi assorbiti nel processo di formazione del recinto.
Ancora un’alterazione, questa volta interna ai tessuti, è causata dall’innesto dei nuovi tipi edilizi. E’ il problema posto dalle diffuse ricostruzioni conseguenti alle distruzioni belliche. Infatti la ricostruzione del lotto, anche quando rispetta il volume preesistente, è sempre risolta in termini di pura quantità edilizia, senza nessuna attenzione per il tipo. Veri corpi estranei, saranno trattati come “lacune” nella figura compatta delle cortine antiche. L’impossibilità di riprodurre per analogia i tipi edilizi - caratterizzati a qualsiasi scala da un impianto non più riproponibile negli schemi residenziali attuali - rinvia ogni volta alle possibilità offerte dalla condizione specifica del lotto per sviluppare il carattere figurativo del contesto.

Completato il restauro urbanistico, il progetto potrà proseguire affrontando il recupero di tutta l’edilizia esistente, al cui interno si mostra sempre risolvibile il problema del degrado. Riconosciuta la necessità di riconfermare i tipi edilizi, l’intervento di recupero si applicherà ogni volta al singolo lotto. Infatti le insule sono costituite da impianti autonomi, ciascuno organizzato all’interno del proprio lotto, senza relazione con quelli confinanti. La riduzione della densità edilizia - obiettivo primario del progetto di recupero - si potrà ottenere allora con l’alleggerimento dei singoli impianti, accentuando la discontinuità della scala edilizia all’interno dell’insula. Intervenendo lotto per lotto, confermando le strutture più solide e riducendo le altre allo schema elementare di funzionamento, si otterrà un riequilibrio generale, maggiore di quello che si può realizzare con interventi di sostituzione, basati su regole di serialità che determinerebbero l’effetto opposto (1).

(1) F.Domenico Moccia Salvatore Polito, Restauro urbanisico del Centro Antico: Il Corpo di Napoli, ed. Clean, Napoli 1986 e 1992

L’area della soglia

   

 


La soglia forma il vuoto dove due o più parti finite si confrontano e si separano (il vuoto segna la soluzione di continuità tra sistemi diversi).
Dalla soglia non abbiamo un’unica visione ma una sequenza di visioni parziali organizzate secondo relazioni formali che rimandano alla struttura.
Il centro antico, che al suo interno è continuità, spessore, scansione del tempo e del corso storico, dalla soglia è colto come evento, rottura nello spazio e nel tempo, discontinuità manifesta.
I punti di vista si situano non casualmente nella struttura testuale  bensì in determinati punti chiave così da istituire un irraggiamento, un ritmo e una sintassi che concorrono all’immagine globale.
L’immagine sarà ricostruita attraverso una sequenza di colpi d’occhio, da un percorso a dettagli marcati. Questo percorso spezzato, costituito da ingressi e uscite intervallati, non produce frammentarietà perché la continuità del modello di relazione spaziale stabilito garantisce l’unità dell’immagine. La continuità del campo percettivo emerge nonostante il dinamismo dei punti di vista e gli intervalli della soglia.
Attraversando la soglia si ha ogni volta variazione, effetto nuovo, scoperta (qualcosa che non era prevedibile prima della sua rivelazione), ma l’intensità dell’effetto varia secondo il livello di tensione tra le parti a confronto. La scoperta a volte emerge con prepotenza, a volte è solo intravista per la presenza di una barriera, ma anche in questo caso è percepibile in quanto la soglia (come il recinto) privilegia sempre lo spazio interno.
L’ispessimento e la concentrazione di immagini, avvertibili sulla soglia, indurranno a una percezione non distratta accrescendo il desiderio di vedere di più (dunque l’eccesso proprio della visione). (1)

(1) In Dietro il Risanamento, il centro antico di Napoli, ed. Clean, Napoli 1983 (con Luisa Olivieri)

Il problema del progetto

 

 

 

“Lacune” nella compattezza del Centro Antico sono, letteralmente, i pochi vuoti sopravvissuti alla ricostruzione postbellica, ma lacune sono le stesse ricostruzioni: volumetrie stipate come bruta quantità edilizia senza riguardi per l’ambiente storico, alterazioni dunque, veri corpi estranei nella figura delle cortine antiche.
Ho circoscritto quindi questi progetti – immaginati come congetture attendibili, precise, oggettive – agli strappi nella tela, lacerazioni che tuttavia non hanno disperso il carattere figurativo dell’insieme.
Ma “lacuna” è termine tratto dalla teoria del restauro di Cesare Brandi. Riferimento che postula la considerazione del Centro Antico come opera d’arte e l’uso di tecniche adeguate al fine di ripristinarne la necessaria unità figurativa. ( vedi la tecnica dell’elemento neutro che deve colmare la lacuna restando sullo sfondo).
Ecco il condizionamento decisivo da imporre all’intervento.
Non significa necessariamente la scelta per l’inserto discreto o anonimo. Ma è indispensabile a affermare, realisticamente, la scala dei valori. Rispetto a quello riconosciuto dominante noi dobbiamo escludere il rischio del tentativo arbitrario e isolato.
Il tipo edilizio resta un riferimento stabile non solo nella progettazione del nuovo ma anche negli interventi nei tessuti storici - a condizione che sussista la continuità di scala edilizia tra lo standard antico e quello moderno. Voglio dire che un tessuto  gotico è perfettamente e semplicemente riproducibile proprio per la continuità della scala edilizia (e l’opzione: città antiche-edilizia nuova, oppure: città antiche-edilizia antica, è una scelta progettuale che va giudicata caso per caso e riferita al giudizio complessivo sulla parte).
Ma nel caso opposto, quando registriamo la rottura tra lo standard antico e quello moderno – ed è drammaticamente il caso del Centro Antico di Napoli -, l’impossibilità di riprodurre i tipi edilizi, caratterizzati - ripetiamolo - da una scala edilizia non più riproponibile - d’altra parte il risultato sarebbe una ridicola miniaturizzazione -, sembra rinviare ogni volta alle possibilità offerte dalla condizione specifica del lotto per sviluppare il carattere figurativo del contesto.
Si avverte il rischio (di nuovo) di regredire all’ambiente e all’ambientalismo – ma fu vera regressione? In realtà, qui, quella che appare proprio negata è la possibilità di una soluzione impressionista o di atmosfera. Perché è proprio il contatto che renderebbe velleitario il tentativo. Sospirando “l’intimità urbana” si rischia di scoprirci respinti dal carattere di chiusura della parte. Affermando il diritto al Moderno, ci si ritrova - nel contrasto - schiacciati dal carattere di opposizione che qui l’autorità dell’Antico esercita.
Neanche ci aiuta la scaltrezza dell’intervento “interstiziale” o la perizia del “frammento”, e neanche l’intelligenza del “bricolage” – un’utile “costruzione logica” del progetto in contesti morfologici complessi ma disomogenei, mai nel nostro caso, caratterizzato com’è dalla chiarezza dell’impianto e della relazione tipo-morfologica.
Le soluzioni riuscite, ovviamente, sono quelle che sanno combinare invenzione tipologica e condizionamento morfologico. (Allo scopo converrà esaltare il massimo dei condizionamenti proprio per liberare quella complessità di cui in questi casi il progetto ha disperato bisogno).
Mettiamo allora l’ambientalismo - la conoscenza del carattere figurativo dominante - con la consapevolezza - quasi una coscienza critica - del tipo edilizio.
In realtà proprio l’impossibilità di affrontare il progetto in termini di continuità fisica (come avvicinarsi, stabilire il contatto o far scoccare il contrasto con quelle poderose murate di tufo?) autorizza a intuire un edificio in assoluta autonomia - dunque un oggetto architettonico - che ricrei la continuità secondo analogie che rimandano al tipo edilizio - per controllare la natura erratica dell’oggetto moderno, arginarne il conflitto con il lotto, ancorarlo.
Il riferimento tipologico - circolarità tra strada e scala, tra sottosuolo e lastrico; scena teatrale dall’androne alla scala; tessuto come aggregazione di moduli spaziali; percezione ingigantita dei dettagli architettonici - ci aiuta a dare vita all’oggetto: la chiarezza del tipo è intesa soprattutto a legare lo spazio alle azioni che vi si svolgono, dunque lo spazio come luogo morale delle azioni - il luogo di quella azione drammatica, sempre identica, colta dal vicolo, attraverso un sipario, ampliata nella scena centrale, riecheggiata dal sottosuolo al lastrico.

Il progetto dell’elemento neutro
Il progetto affronta il problema di conciliare l’esigenza di continuità figurativa con la peculiarità dello standard abitativo moderno. L’impossibilità di confermare la continuità della scala architettonica impone di pensare un edificio decisamente moderno purché all’interno di un “ambito” il cui recinto dovrà costituire l’elemento neutro che colma la “lacuna”.
Il recinto contiene un  volume cilindrico vetrato che ancora al suolo e ai limiti del lotto. Il muro di tufo, l’elemento neutro che raccorda la quinta stradale, ribadendo il grande vuoto degli antichi portali, si apre consentendo l’affaccio dell’edificio e la sua “scoperta” dal vicolo. L’autonomia della concezione architettonica è in questo modo ricondotta all’interno della regola tipo-morfologica, ma il conflitto tra le due forme - la relazione e l’opposizione - è spinto fino al limite del contatto e colto in una sequenza di colpi d’occhio, di dettagli marcati, secondo un’esperienza percettiva tipica nella scoperta dell’ambiente architettonico napoletano.
All’interno del recinto la casa è la “macchina per abitare”, questa volta coerentemente con la tradizione dell’architettura moderna.La scelta del solido cilindrico ha una logica semplice ed evidente: è la forma che organicamente s’inserisce nella cavità della massa costruita; è una soluzione di continuità e esprime al massimo autonomia e finitezze proprie.(Ma anche, contro quella massa schiacciante il cilindro vetrato è solo apparentemente fragile: dall’opposizione tra le due forme si sviluppa una relazione ambigua, letta nei due sensi, ricca e inesauribile).Più in particolare, si liberano alla luce gli angoli che occluderebbero l’alloggio; si mette in moto lo spazio e diventa meno circoscritta - e percepibile - la misura del lotto; la convergenza dell’impianto rende più tollerabile l’assenza della facciata; le inquadrature prospettiche sono rese più complesse dall’intuizione delle relazioni interstiziali.Infine, contro le murate antiche l’involucro di vetrocemento, com’è nella natura dell’architettura moderna, definisce lo spazio dell’alloggio con un limite di luce.

(1) in Salvatore Polito, Tre progetti nel corpo di Napoli, ed. Clean, Napoli 1993